lunedì 4 febbraio 2019

Riaperte alla caccia le ZPS della Provincia di Chieti. EPS Abruzzo: danno per la biodiversità

EPS Abruzzo

- Comunicato stampa –

«Penelope e il cinghiale»
La sconfitta della caccia sostenibile nella Regione Abruzzo


E’ dai tempi della giunta Chiodi e senza soluzione di continuità - a dimostrazione del fatto che fra la politica e la caccia non v’è alcuna relazione diretta di favore o sfavore - che il mondo venatorio abruzzese, e così la componente faunistica della Regione Abruzzo, subiscono, calati dall’alto senza concertazione e condivisione alcuna, provvedimenti assai discutibili, inidonei a provocare un salto di qualità della gestione faunistico-venatoria.

I provvedimenti su lepre italica, coturnice, beccaccia, il pessimo regolamento ungulati (cioè cinghiale), i censimenti, molte misure Patom, hanno introdotto regole e finzioni, hanno dimostrato minuetti tanto complicati quanto inutili, giacché favoriscono agevoli elusioni e consentono ogni anno, all’approssimarsi della stesura del calendario venatorio, di assistere alla solita solfa dell’assenza di dati e di restrizioni (in tal senso quasi autodeterminate) anche su specie che giammai vengono gestite, ma soltanto “lanciate”, come il fagiano.

L’ultima novità è rappresentata dalla riapertura alla caccia tutta delle zone di ripopolamento e cattura costiere della Provincia di Chieti.

Nulla quaestio in ordine al legittimo potere esercitato dalla Regione. Purtuttavia l’intervento, giustificato con l’esigenza di contenere i cinghiali e appoggiato sulla previsione del non ancora vigente nuovo Piano faunistico venatorio, non convince affatto. E, anzi, dimostra che l’Ufficio competente non si cura affatto né della gestione né del prelievo venatorio di specie diverse dall’irsuto suide e che tutto è contagiato dalla “febbre” cinghiale.

Vi è, infatti, che nel sistema di “caccia controllata” a carniere teorico, disegnato dalla ormai incancrenita legge nazionale e dalla pessima legge regionale abruzzese (per la cui modifica stiamo ancora aspettando quattordici anni di promesse politiche, persino nei punti – come per la vigilanza e gli esami - che in seguito allo svuotamento delle funzioni delle Province a seguito della riforma “Del Rio” sono diventati di indifferibile revisione), il territorio venabile, ai fini della sopravvivenza ed irradiamento della selvaggina, stanziale e migratrice, non può non prevedere ancora una distribuzione a scacchiera di zone rifugio che, peraltro, dovrebbero essere “gestite”, per espressa previsione normativa, e non soltanto lasciate tabellate e abbandonate a sé stesse.

Certamente la distribuzione di queste aree doveva essere rivista, in funzione della specifica collocazione, estensione e degli habitat che incorporano, nonché dell’interferenza con eventuali aree protette ed aree Natura 2000. Ma la soppressione tout-court, in nome della incapace gestione del cinghiale, costituisce un vulnus anche per la stessa conservazione della biodiversità che vi trova riparo e sopravvivenza. E, per questo, sarebbe stato necessario attivare anche le procedure previste per le valutazioni ambientali di competenza.

Non ci si può, del resto, affidare all’ipotetica attuazione, in loro vece, da parte degli Atc delle c.d. “zone di rispetto venatorio”, giacché, com’è noto, la gestione degli ambiti a volte è tutt’altro che imparziale, ma sovente localistica e attuata quasi col manuale “Cencelli” in ragione delle esigenze dei tesserati riferiti a ciascun componente del comitato di gestione.

E, se questa è l’impostazione del “minimale” nuovo Piano faunistico venatorio (ovviamente soltanto imposto e giammai concertato, e per giunta ancora una “bozza”, quanto a validità giuridica) ben c’è da essere preoccupati. Del resto, basta un confronto con i piani di altre regioni (Piemonte e Lombardia, ad esempio) per scoprirne le carenze e le manchevolezze.

E’ ora di dire basta. La scusante del cinghiale non può rappresentare l’appiglio per disfare anche quel che di buono era rimasto. Del resto, è ormai chiaro a tutti che l’«emergenza cinghiale» non si risolve con la caccia, ma abbisogna di un approccio multidisciplinare e di regole di gestione completamente diverse. Il fallimento, anche nelle altre regioni, dei soli strumenti venatori che si stanno tentando di imporre, ne è una dimostrazione.

La progressiva scomparsa dei campi coltivati, lo stacco netto tra la macchia esondante e le coltivazioni globalizzate o strade o centri abitati, ha portato i cinghiali dovunque. Gli habitat a loro favorevoli si creano con il semplice mancato sfalcio di un piccolo campo per un paio d’anni o la mancata coltivazione di un vigneto per lo stesso periodo. Nel mentre, pesa l’abbandono delle coltivazioni di montagna e l’uso tradizionale antropico dei boschi. In queste zone i cinghiali si stanno rarefacendo.

La modificazione del paesaggio agrario (ma più in generale agro-silvo-pastorale) tradizionale è un fenomeno ineluttabile per buona parte dell’Italia ed è oggetto da un po’di anni a questa parte di specifiche ricerche. Tutto ciò con la normale conseguenza dell’appropriazione di questi nuovi spazi da parte della fauna selvatica tutta (grandi carnivori compresi) anche in ambiente periurbano e urbano.

In questo contesto, la soluzione della caccia e degli abbattimenti è soltanto “emergenziale”, a volte è un palliativo e si scontra, appunto, con la primaria ed imprescindibile necessità di intervenire sugli habitat. E, per intervenire su questi occorre ridisegnare la programmazione dell’attività agricola nel nostro paese, anzi occorre proprio rivedere la vocazionalità specifica e, anche in ragione della ineluttabile crisi, consentire un ritorno all’economia tradizionale dell’agricoltura, piuttosto che lasciar fare alla mano della globalizzazione, che spiana e distrugge ogni tipicità, ogni biodiversità, ogni economia locale. Non è un caso che gli uffici “caccia” (rectius, di “gestione faunistico-venatoria”, come dovrebbero essere) siano incardinati presso le direzioni agricoltura. Il legame tra caccia è modo agricolo è un cordone ombelicale che è stato reciso alla nascita, sin dalla creazione del sistema di caccia sociale nella riforma del 1967, ma in realtà è l’unico afflato che consente la migliore convivenza, se non la sopravvivenza di entrambe le attività.

La caccia può rappresentare “uno” degli strumenti di gestione faunistica, ma non è certamente l’unico cui affidarsi. E ad i cacciatori può essere soltanto addebitata una resilienza a diminuire le densità degli animali presenti sui territori qualora non vengano resi adeguatamente partecipi e responsabili del complesso della gestione faunistico-venatoria e divengano solo merce esecutiva di contorte cavillosità burocratiche. In questa direzione il regolamento ungulati, partorito nel lontano 2014 (sotto la giunta Chiodi) e mai modificato nella sostanza (durante la giunta d’Alfonso), ha dimostrato tutti i suoi limiti. E così anche la più generale distinzione fra aree “vocate” e “non vocate” per la specie cinghiale. Un paradosso, giacché i confini di siffatte aree sono stati disegnati dagli Atc su istanze non certo obiettive ed anche perché, in ragione dell’ampia adattabilità della specie, le aree “vocate” si estenderebbero dalle vette montane alle spiagge, dai parcheggi dei centri commerciali alle piscine degli alberghi sulla costa. Invece, andrebbe soltanto suddiviso il territorio venabile in aree omogenee di gestione al fine di stabilire delle densità obiettivo che tengano conto di tutte le componenti antropiche ed ambientali in gioco. E le densità obiettivo devono essere raggiunte o mantenute senza imporre la distinzione manichea fra caccia collettiva e caccia individuale, ma consentendo, fermi gli obiettivi, una corretta possibilità di scelta da parte dei cacciatori, rendendoli autori protagonisti e responsabili del raggiungimento dell’obiettivo prefissato e concordato e non meri “attuatori” od avversari. Premiando i virtuosi, piuttosto che minacciando roboanti ma inattuate sanzioni per gli ignavi.

Nel mentre, il cordone ombelicale da riallacciare, fra il mondo agricolo e quello venatorio, passa per il ripristino degli habitat (dai campi coltivati alle zone umide) idonei alla miglior riproduzione e sosta di tutta la selvaggina, cacciabile e non, che – come si può notare empiricamente – non trova affatto respiro attraverso la c.d. “libera evoluzione dei processi naturali”, ma che, in un contesto che paga i danni dello scempio della globalizzazione economica, abbisogna del recupero di molte attività agro-silvo-pastorali tradizionali, relitte da tutti i centri di potere e di amministrazione.

Il presidente regionale

Avv. Giacomo Nicolucci

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