Con sentenza depositata il 9 febbraio scorso, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge abruzzese sul calendario venatorio (sent. n. 20/2012). Che questa legge fosse sospetta di violare la Costituzione non credo possa sorprendere più qualcuno (si veda, se si vuole, l’articolo apparso su questo blog dal titolo “A proposito dell’approvazione con legge regionale del calendario venatorio”). Prima di commentare brevemente la decisione adottata dalla Corte, vorrei, però, spendere qualche parola sulla questione della materia “caccia” alla luce del quadro costituzionale vigente. Ciò risulterà senz’altro utile ai fini della comprensione e della valutazione della sentenza del giudice costituzionale.
Prima che la Costituzione fosse riformata nel 2001, la materia “caccia” era attratta espressamente nella competenza legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni: la Regione avrebbe potuto disciplinare con legge la caccia, ma solo nel rispetto dei principi fondamentali individuati dalla legge dello Stato. Dopo la riforma del 2001, la “caccia” è scomparsa dal testo costituzionale, e cioè: non risulta più attratta nell’elenco delle materie sulle quali hanno competenza legislativa lo Stato e la Regione assieme e neppure è ricondotta entro l’elenco delle materie sulle quali solo lo Stato ha competenza legislativa (art. 117, commi 2 e 3, Cost.). La domanda che si pone è la seguente: a chi appartiene oggi la competenza legislativa sulla caccia? La risposta che deve darsi è questa: alla sola Regione.
Ciò lo si ricava dal fatto che la stessa Costituzione stabilisce a chiare lettere: “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117, comma 4, Cost.).
Il problema che, tuttavia, si pone è che la competenza della Regione sulla caccia incrocia un’altra competenza: quella legislativa esclusiva dello Stato sulla tutela ambientale. In materia di ambiente, infatti, solo lo Stato può intervenire, mentre la Regione può farlo solo a patto che, in connessione con una materia di sua competenza (quale in questo caso è la caccia), la sua legge non violi gli standard di tutela fissati dallo Stato: essa può, dunque, solo innalzare, ma mai ridurre le garanzie di protezione dell’ambiente stabilite dallo Stato.
La disciplina di riferimento è data da una legge varata dal Parlamento nel 1992, che contiene sia disposizioni sulla tutela ambientale, sia disposizioni sulla caccia: un esempio del primo tipo è dato dalle disposizioni sulla protezione della fauna (come quelle sui piani faunistico-venatori, sulle specie cacciabili, sui periodi di attività venatoria, ecc.); un esempio del secondo tipo è dato dalle disposizioni sulle modalità della caccia (come quelle sulle condizioni del suo esercizio, sui mezzi utilizzabili, ecc.). Ebbene, alla luce del quadro costituzionale oggi vigente, può dirsi quanto segue:
A) in relazione alle disposizioni dettate a tutela dell’ambiente, la Regione non può intervenire, ma è tenuta ad osservare quanto in esse prescritto. In questo caso, la Regione può intervenire unicamente: 1) con regolamenti o con atti amministrativi se autorizzata in tal senso dalla legge dello Stato; 2) con legge qualora innalzi le garanzie di tutela ambientale offerte dalla legge dello Stato;
B) in relazione alle disposizioni sulla caccia, queste possono essere derogate dalla Regione, sempreché le deroghe regionali non si riflettano sulle garanzie di carattere ambientale: come ad es. qualora vi fossero eventuali disposizioni sul tipo di pallini utilizzabili, quali quelli di piombo, considerati inquinanti per l’ambiente e tossici per la salute umana (v. legge n. 66/2006, relativa all’Accordo sulla conservazione degli uccelli acquatici migratori dell’Africa – EURASIA).
La sentenza della Corte ha ad oggetto la legge della Regione nella parte in cui disciplina la stagione venatoria, le giornate e gli orari di caccia, le specie cacciabili e i periodi di caccia. Disposizioni, queste, che si inquadrano tutte entro la materia della tutela ambientale e non in quelle della caccia e che, in ragione di ciò, presupporrebbero che l’intervento della Regione resti autorizzato dalla legge dello Stato. E così sembrerebbe in effetti essere. Con il suo ricorso, del resto, il Governo non lamentava la possibilità che la Regione potesse intervenire in proposito, in quanto la legge del 1992 effettivamente autorizzava la Regione ad intervenire. Il problema era non l’intervento in sé, ma il mezzo prescelto per l’intervento: la legge. Stagione venatoria, giornate e orari di caccia, specie cacciabili e periodi di caccia non possono essere disciplinati con legge perché questo vorrebbe dire invadere la competenza dello Stato, che in materia di tutela dell’ambiente è “esclusiva”. E si badi: neppure se lo Stato lo volesse la Regione potrebbe intervenire con legge. L’intervento con legge regionale dietro delega del Parlamento nel nostro ordinamento non è ammessa. Ciò che può essere delegato è solo la potestà regolamentare. Mentre l’esercizio della funzione amministrativa, che spetta normalmente al Comune, può essere conferita a Province, Città metropolitane, Regioni o mantenuto in capo allo Stato, ma solo per esigenze di carattere unitario.
Sul punto, tuttavia, la decisione della Corte, sebbene condivisibile nel merito, appare piuttosto ambigua. Essa, infatti, pur muovendo dal corretto presupposto che le questioni sollevate abbiano attinenza ad una materia di competenza esclusiva dello Stato (l’ambiente), giunge ad affermare che “il legislatore ha perciò titolo per imporre alle Regioni di provvedere nella forma dell’atto amministrativo anziché in quella della legge”. Per poi comunque sostenere che la natura in sé degli oggetti disciplinati dalla legge regionale (stagione venatoria, giornate, orari di caccia, specie cacciabili, periodi di caccia) non potrebbe che richiedere un intervento con un atto diverso dalla legge: l’atto amministrativo. Detto atto – è questo il pensiero della Corte – appare più consono alla disciplina dei criteri tecnico-scientifici ai quali soggiacciono quegli oggetti; e solo esso consentirebbe di far fronte tempestivamente ad un “repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali il calendario venatorio è stato approvato”.
Vero è che la legge della Regione Abruzzo fosse illegittima perché l’intervento sugli oggetti di cui sopra andava esercitato con atto diverso dalla legge, ma questa illegittimità non deriva da quanto ritiene la Corte: né dalla natura degli oggetti disciplinati dalla legge regionale, né da una scelta discrezionale del Legislatore statale (l’atto amministrativo anziché la legge). Trattandosi di una competenza esclusiva dello Stato, infatti, il Legislatore statale avrebbe potuto scegliere unicamente tra: intervenire direttamente esso stesso su tutto oppure autorizzare la Regione all’intervento, ma solo con regolamento oppure con atto amministrativo. Mai con legge. Solo la Costituzione stabilisce quando la Regione può intervenire con legge, non il Legislatore statale.
Da questo punto di vista, la legge del 1992 appare, quindi, legittima: essa stabilisce che “le regioni, sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica, pubblicano, entro e non oltre il 15 giugno, il calendario venatorio regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria”. Qui, come si vede, la legge dello Stato “autorizza” la Regione ad intervenire, da un lato, con atto amministrativo, dall’altro, con regolamento. E in ambedue i casi ciò risulta perfettamente legittimo: nel primo caso, perché, pur trattandosi di una materia di sua competenza, lo Stato può decidere che le funzioni amministrative siano devolute in capo alle Regioni (art. 118 Cost.); nel secondo caso, perché così consente l’art. 117, comma 6, Cost., ove si dice che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di sua competenza esclusiva, salva delega alle Regioni”. Pertanto: l’intervento della Regione Abruzzo risulta illegittimo perché dato con legge e ciò è invasivo della competenza statale.
Eppure anche su quest’ultimo punto la sentenza non è priva di ambiguità. La Corte, infatti, discorre continuamente di “atto amministrativo”, senza considerare che la legge dello Stato chiede che le Regioni adottino “il calendario venatorio regionale e il regolamento relativi all’intera annata venatoria”. Dunque: non solo un atto amministrativo (il calendario venatorio), ma anche un regolamento, che, però, è un atto normativo.
Che i due piani non siano mantenuti adeguatamente distinti emerge anche dalla circostanza che la Corte ritiene che solo un “atto amministrativo” consente di porre tempestivamente rimedio ad un “repentino e imprevedibile mutamento delle circostanze di fatto in base alle quali il calendario venatorio è stato approvato”.
Se si seguisse il procedimento legislativo, precisa la Corte, ciò non sarebbe possibile, costituendo detto procedimento “un aggravio, persino tale in casi estremi da vanificare gli obiettivi di pronta regolazione dei casi di urgenza”.
Ora, questo risulta vero qualora le predette esigenze toccassero il calendario venatorio in sé, ma non lo sarebbe nel caso in cui esse avessero ad oggetto la disciplina dell’attività venatoria annuale.
In questa evenienza, infatti, occorrerebbe ricorrere ad un regolamento, non ad un atto amministrativo.
E competente all’adozione dei regolamenti, almeno in Abruzzo, è il Consiglio e non la Giunta.
Ragion per cui, in questo caso, i problemi di aggravio del procedimento potrebbero restare pressoché irrisolti.